Sabato 27 Luglio, aggiornato alle 19:58

Quel 12 Dicembre 1969 dalla “Spaziale” a Piazza Fontana

Quel 12 Dicembre 1969 dalla “Spaziale” a Piazza Fontana

di Pere Lluís Alvau

L’influenza dell’autunno 1969 era stata denominata la “spaziale” con evidente riferimento al più grande evento cosmico fino ad allora verificatosi ossia l’arrivo dell’uomo sulla luna, avvenuto nella trascorsa estate di quell’anno. Milioni di persone furono colpite dal virus influenzale ed anch’io nei primi giorni di dicembre ne fui vittima, con febbri ed acciacchi collaterali che mi costrinsero a letto per diversi giorni. Proprio all’ultimo giorno di convalescenza, il 12 dicembre, assistetti esterrefatto alle notizie diramate dalla televisione, con continue edizioni straordinarie del telegiornale, sulla tragedia avvenuta in piazza Fontana a Milano, a seguito dell’esplosione di una bomba presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura. I morti furono inizialmente quattordici (diventati poi diciassette) ed i feriti quasi una novantina, di cui alcuni molto gravi.

Quella data del 12 dicembre rimarrà scolpita per sempre nella memoria e nella coscienza di tantissimi italiani.

L’indomani, giorno 13, era per me giorno di rientro a scuola – frequentavo allora la Vª Ginnasio – dopo oltre una settimana di assenza dovuta alla “spaziale”. Mi accompagnò mio padre per firmare davanti al preside la dovuta giustificazione, comprovata peraltro da certificato medico.

Era una giornata di forte libeccio e la piazza Sulis, nella quale si affaccia il Liceo-Ginnasio “Manno” di Alghero, è stata da sempre particolarmente esposta a quel vento di sud-ovest. Ci affrettammo ma giunti nei pressi della piazza notammo un massiccio concentramento di studenti che anziché avviarsi all’ingresso del liceo stazionava ed indugiava nei pressi della scuola. Alcuni diramavano con un megafono la decisione di scioperare per solidarietà alle vittime dell’attentato del giorno precedente. Era innegabile la fondatezza della motivazione e la determinazione degli studenti più anziani che, se non fisicamente ma con motivate ragioni, cercavano di convincere tutti gli altri ad aderire alla protesta. Con mio padre prendemmo la decisione di rientrare con una certa fretta a casa anche per evitare una mia ricaduta a causa del forte vento e dell’umidità della giornata, rinviando all’indomani – considerato l’evolversi degli eventi – il rientro a scuola. Di fatto la mia temperatura corporea era aumentata di almeno un grado e al rientro a casa mi rimisi a letto per poter essere in perfette condizioni per il giorno seguente.

Il pomeriggio ricevetti la visita di alcuni miei compagni di classe che mi comunicarono che il consiglio dei professori, convocato d’urgenza e presieduto dal capo d’istituto, aveva sospeso dalle lezioni per tre giorni i duecentocinquanta studenti che non erano entrati a scuola per aver partecipato al lutto della città di Milano per le quattordici vittime dell’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. Per quattro studenti, ritenuti i promotori dell’iniziativa, erano invece stati inflitti ben dieci giorni di sospensione. Il mio nome era compreso non fra i duecentocinquanta bensì negli ultimi quattro. Così dava a conoscere un comunicato fatto affiggere dal preside nella bacheca principale all’ingresso del liceo, non appena terminato il consiglio dei professori.

Nonostante la legittima perplessità e la conseguente preoccupazione ero convinto, come lo erano anche i miei genitori, che per quanto riguardasse la mia persona si trattasse di un madornale equivoco.

Il giorno seguente, 14 dicembre, con ragionevole anticipo, mio padre ed io ci presentammo in presidenza non solo per giustificare i miei precedenti giorni d’assenza a causa dell’influenza “spaziale” ma soprattutto per venire a capo dell’ingiusta e paradossale decisione assunta dal preside e dal consiglio dei professori.

Il preside fu irremovibile nel suo autoritario e distaccato atteggiamento, asserendo che aveva delle “documentate e schiaccianti” prove della mia “colpevolezza” ma si astenne dal palesarle perché, a sua detta, coperte dal “segreto d’ufficio”. A nulla valsero le vibrate ed educate delucidazioni esposte con competente ragionevolezza da mio padre, che in due occasioni mi impedì energeticamente d’intervenire conoscendo la mia facile e naturale effervescenza che in quell’occasione sarebbe stata soltanto dannosa. Di fronte al quanto meno arrogante e sgarbato atteggiamento del preside e all’evidente abuso d’esercizio di potere, ancora una volta mio padre tentò, senza riuscirci, di farlo ravvedere da un eclatante equivoco, ormai trasformatosi in sopruso. Uscimmo dall’ufficio di presidenza increduli di quanto stesse succedendo e notammo un fuggi-fuggi d’insegnanti che alla nostra vista andavano in direzioni diverse senza una meta precisa. Un’immagine quasi metafisica che testimoniava l’imbarazzo generale per una decisione assunta sicuramente con troppa precipitazione e – quanto meno per il mio caso – senza alcuna prova, anzi con insufficiente e colpevole responsabilità.

Soltanto un sacerdote, insegnante non di religione bensì di italiano e latino, amico d’infanzia di mio padre, cercò di rassicurare entrambi asserendo che la verità sarebbe emersa, invitando mio padre a non andare oltre quell’incontro per eventualmente non compromettere il mio anno scolastico in corso.

Scontai tutti i miei dieci giorni di sospensione, otto prima delle festività natalizie e due ad anno nuovo, dopo l’Epifania, senza che si verificasse alcun nuovo evento, come le parole del prete-professore avevano fatto sperare.

Il ravvedimento del preside e del consiglio dei professori, mai ufficialmente dichiarato, fu invece  imbarazzatamente dimostrato a fine trimestre. Con una sospensione di dieci giorni (ne bastavano cinque) era allora automatico il “sette” in condotta in pagella. Non solo in quel trimestre mi fu dato “otto” ma ottenni un immeritato “nove” (forse l’unico in tutta la mia carriera scolastica) nel trimestre successivo!

I miei sorrisi educatamente biasimevoli e di garbata sufficienza furono dispensati fino alla “maturità” a tutti i responsabili di quella mia prima esperienza di ingiustizia di cui fui vittima.

Peraltro il 1969 aveva già segnato l’inizio della contestazione giovanile ed aveva preso corpo in tutto il Paese l’organizzazione consapevole di quel “Movimento Studentesco” al quale fin d’allora non mancai di prendere parte con coscienza e misura ma allo stesso tempo con la determinazione, l’equilibrio, la cognizione di causa e l’onestà intellettuale che, credo, mi abbiano sempre accompagnato.

 

 

 


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