di Pere Lluís Alvau
Quella mattina d’estate quei cinque bambini fra gli otto e i dieci anni giocavano tranquillamente con palline di vetro e “platarets” (tappi a corona per bibite opportunamente schiacciati ai lembi) in quella che fin dall’Ottocento fu denominata Piazza Ginnasio, oggi più comunemente conosciuta come Piazza San Michele ma che gli algheresi veraci hanno sempre conosciuto come “Plaça del Col·legi” (pr. collegia). La piazza, nei giorni in cui si svolge la nostra storia, non aveva ancora “subìto” gli interventi stilistici attuali e le riedificazioni (opportunamente “modernizzate”) di alcuni edifici che erano stati abbattuti dai bombardamenti aerei del 1943. Erano passati oltre tre lustri, quasi un ventennio, da quegli sciagurati interventi bellici e la piazzetta in quei giorni assolati d’estate ne portava ancora i segni, con rassegnata dignità ed il decoro morale col quale era stata consegnata alla “pilandra” infantile per farne una sana palestra di giochi di strada.
Erano quelli anche gli anni della ricostruzione e dei primi restauri degli appartamenti del centro storico e proprio in quei pressi erano in atto i lavori di qualche micro-cantiere formato da due, massimo tre muratori sotto la guida di talun improvvisato impresario, destinato magari a fare fortuna negli anni immediatamente successivi.Proprio uno di questi futuri “prestigiatori del mattone” si avvicinò ai cinque compagnetti intenti a giocare, chiedendo loro se volessero guadagnarsi cento lire per un lavoretto che li avrebbe distratti dai loro giochi per non più di un paio d’ore. Il più intraprendente dei cinque chiese in cosa consistesse l’eventuale prestazione d’opera ed il sagace “impresario”, sminuendone la portata, disse che vi era da trasportare dalla soffitta di un edificio adiacente di quattro piani un carico di canne, ricavate dallo smantellamento dell’intero tetto dell’edificio, e caricarle su dei carri a cavallo ed un motocarro all’uopo già presenti sul posto
I ragazzetti fecero dei rapidissimi conti mentali. Un gelato al cono costava venti lire e con cento lire ognuno di loro ne avrebbe potuto acquistare cinque. Una baldúfola (trottola di legno da azionare con lo spago avvolto alla stessa) ne costava quaranta e nonostante tutti ne fossero forniti, una nuova (o meglio due!) di riserva sarebbero state necessarie per le gare, che vedevano l’abilità dei concorrenti nel cercare di spaccare quelle degli avversari lanciando sopra la propria. Il portavoce infantile con un solo sguardo ebbe l’assenso degli altri quattro ed immediatamente, messe in tasca le biglie di vetro e i “platarets” i cinque si avviarono al vicino edificio accompagnati dall’imprenditore, soddisfatto per aver reclutato cinque volenterosi apprendisti manovali che avrebbero prestato comunque la loro opera quanto un singolo manovale di professione che in quegli anni non costava meno di mille lire al giorno.L’operazione -intesa come mansionario e patto economico- andava a soddisfare entrambe le parti, sia quella “imprenditoriale” ma anche quella “prestatrice d’opera”.
Quei ragazzini, o semplicemente poco più che bambini (va rimarcato che il più “anziano” aveva dieci anni), all’inizio si divertirono facendo quattro piani di scale con chili di vecchie canne alla schiena. Quando poi cominciarono a rallentare il loro ritmo di sali-scendi furono incalzati non solo dall’impresario ma anche dagli due muratori e dai trasportatori che nel mentre andavano e tornavano coi loro carri. Non è dato sapere dove scaricassero gli inerti, vista la velocità con la quale facessero ritorno al “cantiere
Nella fretta di finire prima di pranzo qualche “àlxola” (pr. àlciura), ovvero frammento di canna, penetrava nelle mani di quei bambini, non certo atte a quel tipo di lavoro. L’entusiasmo iniziale era scemato ormai fin dalla prima mezzora di quel lavoro che si era rivelato più ingrato e pesante di quanto potesse sembrare dalle illusorie parole di descrizione del muratore-impresario.
Comunque pochi minuti prima delle dodici (ora canonica in cui le maestranze edili interrompevano i lavori per il pranzo) e dopo oltre due ore di viaggi sulle scale col carico delle vecchie canne che reggevano il tetto dell’intero edificio, il lavoro fu terminato con grande soddisfazione oltre che del titolare di quella che chiamarla “impresa” è un aggraziato eufemismo, anche da parte dei giovanissimi manovali che al di là della imminente ricompensa potevano riposarsi e sciacquarsi mani e viso in una “tamburlana” sistemata ad un lato de la “portalleta” (portoncino d’ingresso).
Mentre i bambini procedevano appunto a queste ultime occupazioni di natura igienica, si accostò loro il “datore di lavoro” e con un fare tra il paternalistico e l’imprenditoriale fece loro i complimenti per aver adempiuto con abilità e tempi contenuti al lavoro affidato e che il compenso pattuito era ampiamente meritato.
Tirò fuori di tasca una moneta da cento lire e la consegnò al portavoce dei cinque, asserendo che non aveva spiccioli e che pertanto provvedesse lui stesso al cambio e relativa divisione con gli altri. Alla perplessità manifestata dai piccoli con proteste che rasentavano più che la rabbia il pianto, il protervo impresario, con una strafottente risatina che sottintendeva un evidente “vi ho fregato!”, affermò che le cento lire lui le intendeva non a testa ma per l’intero lavoro svolto dai cinque e che d’altronde cento lire erano una cifra troppo alta da destinare ad un solo bambino che rasentava i dieci anni.
Va ribadito, come già detto, che un manovale adulto avrebbe impiegato per svolgere quel lavoro da solo un’intera giornata e che la stessa a prezzo di mercato sarebbe stata retribuita con mille lire, anche in soli termini di cottimo se avesse terminato prima.
Quei cinque bambini impararono fin da piccoli, sulla loro pelle e con la sola lezione di un giorno (anzi di una sola mattina), la realtà dello sfruttamento del lavoro minorile e non solo, ma anche l’arricchimento facile e talvolta ai confini (se non molto spesso oltre) della legge di alcuni esponenti di talune categorie imprenditoriali le quali non sempre hanno saputo prendere le distanze da personaggi, come quello descritto, che le screditavano e talvolta continuano a screditarle.