“La Corte costituzionale, con la recentissima sentenza n. 178 del 26 luglio 2018, ha sancito l’incostituzionalità di alcune norme di carattere urbanistico-edilizio (artt. 13, comma 1°, e 29, comma 1°, lettera a, della legge regionale Sardegna n. 11/2017) e, soprattutto, delle norme regionali sarde in materia di razionalizzazione delle terre collettive (artt. 37-39 della legge regionale Sardegna n. 11/2017).
L’art. 13, comma 1°, della legge regionale Sardegna n. 11/2017 prevede l’esclusione dal vincolo di integrale conservazione dei singoli caratteri naturalistici, storico-morfologici e dei rispettivi insiemi degli “interventi relativi alla realizzazione di parcheggi che non determinino alterazione permanente e irreversibile dello stato dei luoghi e le strutture di facile rimozione a servizio della balneazione e della ristorazione, preparazione e somministrazione di bevande e alimenti, e finalizzate all’esercizio di attività sportive, ludico-ricreative direttamente connesse all’uso del mare e delle acque interne”. nonché “le infrastrutture puntuali di facile rimozione a servizio delle strutture di interesse turistico-ricreativo dedicate alla nautica”.
La disposizione è stata, come prevedibile, censurata perché “la Regione autonoma resistente ha … proceduto in via unilaterale, e non attraverso la pianificazione condivisa conformemente a quanto previsto dai citati artt. 135 e 143 del d.lgs. n. 42 del 2004. Questa Corte ha già riconosciuto a tali disposizioni il rango di norme di grande riforma economico-sociale (sentenze n. 103 del 2017, n. 210 del 2014 e n. 308 del 2013); in ogni caso, in presenza di più competenze, quale quella dello Stato in materia ambientale, e quella della Regione autonoma della Sardegna in materia edilizia ed urbanistica, così intrecciate ed interdipendenti in relazione alla fattispecie in esame, la concertazione in sede legislativa ed amministrativa risulta indefettibile per prevenire ed evitare aporie del sistema”. Il Giudice delle Leggi “ha già avuto modo di affermare, proprio con riferimento alla Regione autonoma della Sardegna, che la conservazione ambientale e paesaggistica spetta, in base all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., alla cura esclusiva dello Stato, aggiungendo che tale titolo di competenza statale «riverbera i suoi effetti anche quando si tratta di Regioni speciali o di Province autonome, con l’ulteriore precisazione, però, che qui occorre tener conto degli statuti speciali di autonomia» (sentenza n. 378 del 2007)”.
Censurato anche l’art. 29, comma 1, lettera a, della medesima legge regionale Sardegna n. 11/2017, in quanto “legittima interventi di demolizione e ricostruzione, con differente localizzazione degli edifici situati in aree ricadenti all’interno delle zone urbanistiche omogenee E e H e interne al perimetro dei beni paesaggistici di cui all’art. 142, comma 1, lettere a), b), c), e i) del d.lgs. n. 42 del 2004”, determinando “attraverso il previo mutamento della disciplina inerente a tali zone urbanistiche”, lo svuotamento “competenza esclusiva dello Stato finalizzata a determinare i criteri con cui intervenire negli ambiti ambientali e paesistici”.
Fatto di maggiore rilievo ai fini del quadro normativo di salvaguardia ambientale dell’Isola è la pronuncia di illegittimità costituzionale anche degli artt. 37-39 della citata legge regionale, in riferimento all’art. 117, comma 2°, lettera s, cost. e con riguardo all’art. 143 del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i. e all’art. 3, comma 1°, lettera n, dello statuto speciale per la Sardegna (legge cost. n. 3/1948 e s.m.i.).
La Corte costituzionale ricorda che già “in fattispecie sostanzialmente analoghe … «la conciliazione degli interessi in gioco e la coesistenza dei due ambiti di competenza legislativa statale e regionale» avviene attraverso «la previa istruttoria e il previo coinvolgimento dello Stato nella decisione di sottrarre eventualmente alla pianificazione ambientale beni che, almeno in astratto, ne fanno ‘naturalmente’ parte» (sentenza n. 103 del 2017)”. Inoltre, “il regime civilistico dei beni civici non è mai passato nella sfera di competenza delle Regioni”, tanto che la “la materia ‘agricoltura e foreste’ di cui al previgente art. 117 Cost., che giustificava il trasferimento delle funzioni alle Regioni e l’inserimento degli usi civici nei relativi statuti, mai avrebbe potuto comprendere la disciplina della titolarità e dell’esercizio di diritti dominicali sulle terre civiche» (sentenza n. 113 del 2018)”.
Secondo la Corte, “la competenza regionale nella materia degli usi civici deve essere intesa come legittimazione a promuovere, ove ne ricorrano i presupposti, i procedimenti amministrativi finalizzati alle ipotesi tipiche di sclassificazione previste dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766 … e dal relativo regolamento di attuazione … , nonché quelli inerenti al mutamento di destinazione”. Un terreno a uso civico, quindi, “non può essere […] oggetto di alienazione al di fuori delle ipotesi tassative previste dalla legge n. 1766 del 1927 e dal r.d. n. 332 del 1928 per il particolare regime della sua titolarità e della sua circolazione, ‘che lo assimila ad un bene appartenente al demanio, nemmeno potendo per esso configurarsi una cosiddetta sdemanializzazione di fatto. L’incommerciabilità derivante da tale regime comporta che […] la preminenza di quel pubblico interesse, che ha impresso al bene immobile il vincolo dell’uso civico stesso, ne vieti qualunque circolazione’ (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 28 settembre 2011, n. 19792)» (sentenza n. 113 del 2018)”.
Tali procedure non sono state modificate dalla recente legge n. 168/2017 sui domini collettivi.
Per la Corte costituzionale, “le norme impugnate contrastano, dunque, con il presupposto indefettibile della previa ‘sclassificazione’, che può concretarsi solo nelle fattispecie legali tipiche, nel cui ambito procedimentale precedentemente richiamato è oggi ricompreso anche il concerto tra Regione e Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare (sentenze n. 113 del 2018, n. 103 del 2017 e n. 210 del 2014)”.
Così, “in conclusione”, ribadisce la Corte, “è proprio la pianificazione ambientale e paesaggistica, esercitata da Stato e Regione, secondo le condivise modalità specificate da questa Corte (sentenza n. 210 del 2014), la sede nella quale eventualmente può essere modificata, attraverso l’istituto del mutamento di destinazione, l’utilizzazione dei beni d’uso civico per nuovi obiettivi e – solo in casi di particolare rilevanza – per esigenze di adeguamento a situazioni di fatto meritevoli di salvaguardia sulla base di una valutazione non collidente con gli interessi generali della popolazione locale. Infatti, il mutamento di destinazione «ha lo scopo di mantenere, pur nel cambiamento d’uso, un impiego utile alla collettività che ne rimane intestataria» (sentenza n. 113 del 2018). La ratio di tale regola è nell’attribuzione alla collettività e agli utenti del bene d’uso civico, uti singuli et cives, del potere di vigilare a che la nuova utilizzazione mantenga nel tempo caratteri conformi alla pianificazione paesistico ambientale che l’ha determinata”.
La pronuncia della Corte costituzionale, però, lascia più dubbi che certezze e appare, di fatto, consegnare la razionalizzazione dei demani civici sardi a un presente e un futuro di forte opacità.
Volendo legare la procedura di copianificazione Stato – Regione (e per lo Stato al “Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare” e non anche al Ministero per i beni e attività culturali e il turismo, come indicato dal Codice per i beni culturali e il paesaggio) al solo momento della “pianificazione ambientale e paesaggistica”, non tiene minimamente conto delle innumerevoli situazioni di occupazioni illegittime di terreni a uso civico con presenza di edifici “privati” determinate da alienazioni illegittime risalenti anche a svariati decenni or sono. Tali situazioni, ampiamente diffuse anche nel resto d’Italia, necessiterebbero di procedure di copianificazione Stato – Regione da svolgersi volta per volta per evitare una paralisi amministrativa e fattuale di potenziale lunga durata. Gli artt. 37-39 della legge regionale Sardegna n. 11/2017 ora dichiarati illegittimi avevano il pregio – caso unico in Italia – di legare qualsiasi ipotesi di sdemanializzazione di terreni a uso civico irreversibilmente trasformati (seppure illegittimamente) a trasferimenti del diritto di uso civico su altri terreni pubblici di pregevole interesse ambientale (es. coste, boschi, zone umide, ecc.) e sempre previa vincolante procedura di copianificazione Stato – Regione.[1]
Dopo decenni di gravissima ignavia dello Stato e di gran parte delle Regioni (Regione autonoma della Sardegna compresa) costituiva un importante passo verso la salvaguardia e la gestione del grande patrimonio delle terre collettive (oltre 5 milioni di ettari in tutta Italia, 4-500 mila ettari nella sola Sardegna).
Ora la Corte costituzionale ha riportato un clima di grande incertezza senza indicare una strada giuridicamente corretta di agevole percorrenza.
Nel mentre, grazie anche alla campagna per la tutela delle terre collettive della Sardegna che il Gruppo d’Intervento Giuridico onlus sta conducendo da anni, finalmente sono avvenuti i primi recuperi al demanio civico di pertinenza di terreni a uso civico già illegittimamente occupati e decine di provvedimenti di accertamento di nuovi demani civici. Stimoli per un impegno ancora più determinato per la salvaguardia di un grande patrimonio ambientale delle collettività locali.
Così termina la nota a firma di Stefano Deliperi p. Gruppo d’Intervento Giuridico onlus
[1] In passato la Corte costituzionale aveva ritenuto legittimi provvedimenti normativi regionali che consentivano procedure di sdemanializzazione di terreni a uso civico una volta oggetto di trasformazioni irreversibili senza alcuna contropartita (vds. Corte cost. n. 511/1991).